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Recensione di Cesare Orler

Solitamente i titoli non andrebbero spiegati: hanno il dono della sintesi, raccolgono il significato più profondo di ciò che segue e attendono solo che qualcuno ne comprenda intimamente la portata. “È come spiegare una barzelletta”, direbbero taluni critici: tuttavia, visto che mi ritrovo da troppo poco tempo all’interno di questa categoria per averne appreso le sofisticate elucubrazioni, preferisco non lasciare niente al caso e occuparmi anche di questo.

Dunque: Hic sunt leones.
Dobbiamo ancora una volta agli antichi romani il conio di questa fortunata formula letteraria, giunta poi pressoché invariata fino a noi attraverso i secoli – anche se ne esiste un’altra variante, altrettanto utilizzata, hic sunt dracones. Nello specifico, il termine leones non significa solamente “leoni” ma qualsiasi altra “fiera” in generale e sta a indicare tutto ciò che, ben oltre la barbarie, interessa luoghi senza alcuna possibilità di civilizzazione.
Nella cartografia d’epoca antica, tale evocativa espressione indica con allarmante precisione tutte quelle zone inesplorate dell’entroterra africano che sfuggono proprio alla comprensione della civiltà: a conti fatti e per quanto estremamente intraprendenti, in realtà gli antichi romani non possiedono né le risorse né le conoscenze per spingersi oltre la zona costiera del nord Africa. Di conseguenza, tutto ciò che sta al di là dei confini conosciuti viene appunto indicato con l’espressione hic sunt leones. Poco importa se effettivamente sia possibile imbattersi o meno in leoni, tigri o leopardi: e come è ampiamente noto, nella società romana solo i più valorosi gladiatori hanno la (s)fortuna di affrontare di persona “bestie” di tal portata, in sfide all’ultimo sangue organizzate per il pubblico divertimento al Colosseo.

Ecco quindi che questi leones rappresentano il non-conoscibile, l’oscuro mistero o forse l’ignoto in un senso più generale, ciò che, per certa tradizione occidentale medievale e successiva, è diventato poi il cattivo e famelico “lupo nero”, antagonista principe delle fiabe che si raccontano ancora oggi ai bambini prima di mandarli a letto (ma lo si fa ancora?).

Dunque, incertezza, da un lato; ma anche desiderio di conoscenza, dall’altro: al tempo stesso, Hic sunt leones rappresenta infatti l’irraggiungibile per antonomasia, l’inaccessibile ai più per via degli insormontabili ostacoli da superare; nonché un luogo inesplorato a cui tutti vorrebbero accedere, su cui sono stati spesi fiumi di inchiostro al fine di mitizzarne l’immagine: un po’ come quel “lontano Oriente” della letteratura quattro- cinquecentesca, nel quale si conservano sterminate ricchezze e meraviglie d’ogni sorta ma così distante che anche solo il parlarne si tramuta in favola. Un sogno, dunque, per pochi temerari più che altro fortunati: poiché spesso accade che chi cerca di raggiungere tanto mistero difficilmente sopravvive abbastanza per poterlo raccontare.

La scelta di questo titolo è però direttamente proporzionale al mio primo incontro con Air Daryal e le sue opere: avendo avuto la fortuna di essere accompagnato da lei in persona in questa esperienza, mi sono sentito una sorta di Indiana Jones che, dopo un lungo viaggio nei territori più pericolosi e inaccessibili del pianeta, si trova finalmente di fronte alle meraviglie di El Dorado – con l’unica differenza che, in questo caso, la città d’oro è proprio “La Pittura”.

Infatti, è proprio grazie a questa che Air possiede la capacità innata di riuscire a creare dal nulla un’atmosfera avvolgente, un ambiente emotivo sospeso nel tempo in cui veniamo velocemente proiettati, un quotidiano immobile che si mostra ancora tutto da scoprire. Tali luoghi “quotidiani” – sale e saloni ormai dimenticati, soffitti dai grandi lampadari impolverati ma anche ampie scalinate, intime camere di lettura, salotti intrisi di fasti passati e giardini privati – hanno in loro un che di assolutamente regale, ambienti in cui atri luminosi, arcate e soffitti decorati a stucco così come luminose porte vetrate e principesche salite ci trasportano indietro nel tempo.

Poi però ecco la “fiera”, protagonista assoluta di questo “safari” che non si aspetta ospiti e nel quale ci ritroviamo senza alcun compagno. Considerati gli ultimi due anni, sembra quasi di rivivere una delle nostre città abbandonate di cui ci raccontavano i tg durante il lockdown della prima ondata di Covid-19, dove la natura era tornata prepotentemente a occupare il pianeta incredula che non fossimo più in così gran numero. La vegetazione fagocita ogni (nostra) cosa, si inerpica sui muri con l’edera e il muschio, germoglia tra le crepe del pavimento, segnale di una vita che trova sempre il modo di emergere anche senza di noi.

In mezzo a tutto questo un unico elemento costante: la tigre. Con la sua nobile fierezza ci scruta, distesa e in attesa del nostro arrivo, altre volte ancora si mostra del tutto incurante, intenta nelle sue attività senza neppure degnarci di uno sguardo. Da sola o con altri suoi simili, non è raro poterla ammirare circondata da un alone di colore verde, una semplice e rapida pennellata che ne sottolinea i contorni, quasi un campo di forza a protezione dell’animale.

Forse il messaggio è che dovunque la tigre (la vita) si sposti, la natura voglia seguirla, accompagnandola; e che ovunque la vita (la tigre) sia, la natura esista.

In ogni caso, sono proprio questi temibili felini a sostituire l’uomo nel dominio dell’ambiente, vivendo in pieno quegli spazi che noi abbiamo voluto erigere.

Ora sono loro le padrone di casa.
Ma non dovremmo stupirci poi più di tanto: in un mondo dove, ipotizziamo, l’uomo dovesse sparire per sempre, le tigri o chi per loro prenderebbero immediatamente il suo posto – e non dovremmo neanche attendere molto. Assieme agli orsi, le tigri sono tra i maggiori predatori terrestri e, oltre alla loro tipica eleganza nei movimenti o a quella assoluta mortale bellezza che le contraddistingue, forse è anche per questo loro primato che nella storia dell’arte le ritroviamo rappresentate innumerevoli volte.
Qualche esempio: l’incisore, pittore e poeta inglese William Blake nel XVII secolo le considera l’archetipo allegorico dell’immagine originaria. In buona sostanza, egli parte dall’assunto che il mondo sia stato creato da un potente demiurgo che ha scelto la tigre per proiettare in essa un insieme di forze titaniche, tra cui la stessa facoltà della creazione. Quindi, la tigre evocherebbe questa inarrestabile energia poiché incarnazione animale dell’assoluto.
E che dire delle terrificanti belve di Antonio Ligabue, raffigurate sempre durante sessioni di caccia o con le fauci spalancate? E di Eugène Delacroix che invece se ne interessa durante il suo viaggio del 1832 tra Marocco e Algeria in quanto pittore e inviato diplomatico per il re di Francia Luigi Filippo?

Confrontandoci brevemente con altre culture – ed esulando dalla questione puramente artistica – in questo andare su e giù per la storia dell’uomo non possiamo non notare come nella mitologia greca quattro tigri guidino il carro di Dioniso; oppure come, nell’Inferno e nel Calendario Cinese, questo felino abbia, nel primo, funzione purificatrice e di guardiano, nel secondo un temperamento ribelle ed esplosivo; infine, nelle culture sciamaniche, essa diviene uno spirito guida che simboleggia potere, passione e conoscenza.
Ancora: nel lungo monologo del suo poema drammatico Gerontion (1920), lo scrittore T.S. Eliot scrive che “(…) nell’adolescenza dell’anno venne Cristo la tigre”, identificando perciò l’animale come un guardiano dei riti di passaggio da uno stadio della vita a un altro, significato che possiamo in parte ritrovare nella simbologia cristiana. Infine, nel meraviglioso film di Ang Lee “Vita di Pi” (2012, vincitore di 4 Premi Oscar su 11 nomination ricevute) i due protagonisti sono un adolescente di origini indiane e una tigre che, dopo un tremendo naufragio, devono convivere su una piccola imbarcazione attraverso tragiche avventure in luoghi ai confini della realtà. La pellicola interroga tutti noi sulla dialettica tra razionalismo e trascendenza, giungendo infine alla domanda fondamentale: gli animali possiedono un’anima?
Pressoché in tutte le più diffuse e note culture del pianeta la tigre è dunque presente, a tratti come forza generatrice, a tratti distruttrice. Ma cosa rappresenta per Air Daryal?

“La tigre non è soltanto uno spirito guida, ma l’istinto puro e primordiale, la forza inesorabile. La tigre è un’anima feroce e implacabile, ma giusta. Sa quando uccidere per sfamare sé e i suoi piccoli e sa quando è il momento di aspettare: segue semplicemente il cerchio della vita. L’uomo uccide gli animali a volte semplicemente per esporne zanne, teste e pellicce come trofei. Ritengo la tigre superiore all’uomo perché in essa vedo una purezza, a tratti bestiale certo, che però non ha malignità. Nelle mie opere ha sempre un significato positivo ed è in grado di riportare agli albori i luoghi disabitati e decadenti. È portatrice di una forza vitale necessaria e di un messaggio d’amore. L’ho vista giocare e farsi coccolare dai monaci tibetani che convivono con questi animali da sempre”.

È tempo infine di giungere al nostro “El Dorado”, alla pittura vera e propria.
La figurazione si propone non solo come chiaro ingresso per un simbolismo romantico, ma anche come pretesto pittorico a tutti gli effetti. Un secondo livello di analisi, rispetto a quello iconografico e iconologico appena compiuto, ci permette di comprendere come la pittura si auto-elegga a protagonista dell’opera. Una pittura che non mente e che non cerca di nascondersi dietro velature ruffiane, dettagli cattura-sguardo o echi iperrealisti – che Air saprebbe comunque replicare in maniera impeccabile come dimostrano gli inizi della sua carriera artistica.

Una pittura che si mette in mostra in tutta la sua fisicità, un po’ come i mattoni faccia a vista delle tipiche abitazioni inglesi: e che sprona l’osservatore alla curiosità, ad avvicinarcisi a tal punto da potersi dimenticare della figura ritratta a vantaggio della semplice spatolata, del grumo di colore e del graffio sulla tela. Una pittura “saporita” inoltre, di cui si avverte persistente il retrogusto e che solletica la vista anziché il palato: in effetti, le sue sono immagini dal sapore decisamente molto pieno ma al tempo stesso altrettanto colme di aria e di spazio. Il non-finito, presente talvolta alle estremità delle tele e combinato con l’ampio utilizzo del bianco, alleggerisce l’immagine, permettendoci di elaborare una quantità considerevole di elementi senza che lo sguardo ne risenta eccessivamente. Proseguendo, l’uso della gocciolatura e la pennellata piatta provvedono a conferire un’incessante vibrazione al dipinto. La gocciolatura in sé è materia che cola, mentre quella pennellata compatta e piana ne rappresenta l’esatto contrario, quasi l’azzeramento della pittura.
Quest’ultimo gesto è, a mio avviso, l’intuizione e la cifra più riconoscibile di Air: talmente immediato da risultare universale e di istantanea comprensione, tale movimento divide l’immagine come se volesse semplificarla in una griglia, rendendo lo spazio più calcolabile e percorribile mentre, al tempo stesso, lo riafferma come primo piano. Elegantissima la scelta di coordinarlo con il pantone del dipinto in ogni sua apparizione, il risultato è una liaison cromatica che ci ricorda continuamente la natura pittorica e illusoria di ciò che stiamo osservando.

Altre due caratteristiche perennemente in contrasto sono la minuzia di alcuni dettagli – lampadari, stucchi decorativi degli ingressi, caminetti e cornici degli specchi – e le “zone neutre” di queste abitazioni che offrono l’occasione per una pittura completamente informale.

Mi spiego meglio.
Queste aree di pittura sono i soffitti, i pavimenti e i muri in cui non ci sarebbe stato altro che intonaco o piastrelle monocrome, o comunque dalle rigide geometrie: è invece in queste zone che Air si lascia andare a una pittura della massima libertà gestuale nella quale percepiamo la trasformazione di alcuni marmi alle pareti in laghi ghiacciati, di alcuni soffitti in cieli screziati di bianco, di alcuni parquet in sterrati terrosi. Si potrebbe forse già scorgere in queste soluzioni la sua tensione a sfondare lo spazio e rivolgersi a un ambiente esterno.
Altro elemento di originalità è quella sensazione di “antico” che permea l’immagine: pur trattandosi di una pittura assolutamente contemporanea, ogni dipinto appare coperto da un velo di “polvere” che rende indefiniti i contorni, offusca gli oggetti come se provenissero da un tempo lontano. Anche qualora i colori risultino vividi ed energici, si avvertirà sempre questo distacco temporale che rende il nostro percorso non solo un’avventura nell’ignoto, ma un viaggio nel tempo.

A questo si appoggia l’utilizzo della parola: spesso in latino, essa si fa portatrice di messaggi positivi e propositivi – per aspera ad astra, dona nobis pacem, veritas numquam perit, omnia vincit amor – che acquistano ancor più significato nei difficili giorni che stiamo vivendo.

Eppure non sono soltanto questo: più d’ogni altra cosa, mi sento di intenderle come vere e proprie apparizioni, forme, colori e geometrie che suggeriscono la presenza di una scomposizione in piani in cui costituire il primo livello di prossimità nei confronti dell’osservatore.

Oltre agli interni con le tigri, Air è autrice anche del ciclo degli Scenari, opere di più ampio respiro spaziale in cui si esplora l’esterno mediante punti di fuga ben più coraggiosi e nei quali, al momento, non sono ammesse presenze vitali. Ogni tanto un ritorno all’uomo, un riferimento all’architettura classica presentata attraverso il filtro delle incisioni di Piranesi. Ma niente di più: qui la natura esplode nella sua valenza più romantica, di un romanticismo non idilliaco, sdolcinato e mieloso, ma di quello che mette al centro una natura incontrastata, immensa e schiacciante per la sua vastità. Adesso quella pittura informale di cui abbiamo già accennato in precedenza trova la sua più naturale espressione. Il gesto si fa liberatorio ed esplora orizzonti irraggiungibili.

In queste vedute è il senso più vero di hic sunt leones, probabilmente più che nei dipinti di interni. Vette altissime dove l’oltre rimane un mistero, il territorio privilegiato dell’immaginazione: e dove gli antichi scorgevano leoni, noi ritroviamo “La Pittura”. Adesso più che mai, il dipingere di Air Daryal è fatto di ampie spatolate, di quei segni che attraversano il cielo come rasoiate.

Scenari invernali che si aprono verso il futuro, quando anche le tigri torneranno a popolare la terra: del resto, dopo aver riportato alla vita gli ambienti dell’uomo, il suo spirito guida dovrà provvedere alla natura, suo habitat naturale.